Il dono della tenerezza
Cos’è per voi la tenerezza?
La parola “tenerezza” non ha lo stesso significato per tutti.
Si perché ognuno di noi associa la tenerezza a qualcosa anche di molto personale: a cosa associamo, nel nostro personale modo di sentire e pensare, il concetto di tenerezza? A “melassa”, sdolcinatura che ci rende vulnerabili alle prese in giro e attacchi da parte degli altri, qualcosa da evitare di far vedere troppo? Oppure la associamo a qualcosa di utile per accattivarsi l’attenzione e l’affetto degli altri, una specie di modalità da usare il più possibile perché rifiutiamo fortemente che gli altri possano percepirci come persone anche capaci di arrabbiarsi, forse perché associamo il concetto di “rabbia” al concetto di “cattiveria”? oppure?
Se ci riflettiamo, ognuno di noi, pur sapendo cosa significa tenerezza, decide poi di fondo di considerarla e usarla “se” e a seconda di come la considera: e soprattutto ognuno di noi si fa spesso influenzare, anche inconsciamente, da se e quanta tenerezza, da che tipo di tenerezza ha ricevuto nella sua vita, e se è stato “ferito”, e dove, quando desiderava tenerezza e forse si è sentito non capito da qualcuno, o si è sentito considerato “debole”, “lamentoso”, egoista, o infantile, o chi più ne ha e più ne metta.
La tenerezza è, prima di tutto, un dono, una possibilità che Qualcuno, Dio, ci ha donato quando ci ha voluti qui, quando ci ha creato. È un dono prezioso, che rimane in noi, qualunque situazione viviamo, da sempre e per sempre, ed è un dono per noi stessi e per gli altri.
E questo dono, che è anche un talento, una capacità, in forme e modalità diverse, uniche e speciali, lo abbiamo ricevuto tutti, da Dio, ma proprio tutti. Anche chi sembra “solo” duro, antipatico, poco sensibile, indifferente, egoista, chiuso, freddo. Perché ogni persona è preziosa e unica creatura, immensamente voluta e amata da Dio, ed è una creatura che a sua volta è un dono unico, anche per noi, come noi lo siamo per gli altri.
Forse consideriamo noi stessi già abbastanza teneri verso gli altri, abbastanza tanto sensibili e attenti, abbastanza bravi nell’esprimerla, ma possiamo allenarci e imparare a vivere la tenerezza, prima di tutto con noi stessi, e poi anche con gli altri, molto, molto più di quanto facciamo ora.
Un primo passo per coltivare e usare come talento il dono della tenerezza che ci è stato dato, è…..scegliere l’umiltà di provare a vedere dove, in quale ambito, prima di tutto nel nostro cuore e nei nostri pensieri, rifiutiamo di vivere e donare la tenerezza: perché a volte in teoria “sentiamo” tenerezza e pensiamo che sia una bella capacità e qualità, ma poi spesso attiviamo due scelte: ci convinciamo per esempio che “già” esprimiamo fin troppa tenerezza agli altri, perché misuriamo quanto lo facciamo da quanto pensiamo in modo tenero a qualcuno, da quanto dentro di noi sentiamo simpatia, tenerezza e affetto per qualcuno: per i parenti, per amici, per conoscenti, e ci convinciamo che il solo fatto di quanto pensiamo così dentro di noi, “arrivi” automaticamente, come fatto e certezza scontata, anche agli altri, a coloro verso cui abbiamo affetto e tenerezza.
Ma così non è, spesso gli altri hanno i loro “codici” e criteri per sentirsi capiti, amati, voluti, considerati, influenzati dalle loro personali “ferite” interiori che spesso non sappiamo e non vediamo, perciò è necessario non dare mai per scontato che gli altri “lo sanno già e tanto” quanto ci teniamo a loro.
Oppure, siamo tentati di credere che noi amiamo la tenerezza, i modi benevoli, l’empatia verso gli altri, e poi facciamo una serie di eccezioni, prima di tutto nel nostro cuore e nei nostri pensieri, tipo: “Si, è giusto esprimere tenerezza, ma non a coloro che sono antipatici, poco disponibili a capirci e aiutarci, ma non a coloro che non ci vengono incontro per primi, non ci salutano per primi, non ci cercano, non ci rivolgono la parola o non ci esprimono per primi affetto e considerazione, attenzione”, e ancora “Tenerezza sì ma non verso coloro che sbagliano con noi (dimenticando che anche noi sbagliamo, e anche verso di loro), o coloro che sono solo freddi, chiusi, non ci cercano mai”.
E in più, spesso crediamo che sia impossibile sentire, pensare ed esprimere tenerezza quando vogliamo correggere qualcuno, quando vogliamo far capire a qualcuno che sta sbagliando, che deve cambiare, che si sta comportando da egoista, ecc.
Ma chi l’ha detto che per correggere, per far notare un errore o uno sbaglio che è un male, si debba rimproverare con durezza, con giudizio e tensione, con parole amare e scoraggianti? Chi l’ha detto che “solo” così gli altri capiranno quanto sbagliano, quanto sono egoisti, e quanto e dove devono cambiare?
C’è un piccolo esercizio di immedesimazione per aiutarci a capire questo: quando siamo noi a sbagliare, anche tanto, o a non fare bene qualcosa, o a non voler cambiare o fare qualcosa, cosa ci aiuta davvero? L’essere pensati e visti con giudizio, l’essere aspramente rimproverati, l’essere trattati con freddezza, silenzi e musi punitivi, l’essere trattati con parole aggressive? Oppure ci aiuta l’essere guardati e trattati lo stesso con tenerezza di fondo, perché chi ci guarda sceglie di aiutarci a correggere un nostro errore o sbaglio ma non condannando noi come persone?
Si può dire qualcosa a qualcuno, anche per aiutarlo a cambiare ciò che va cambiato per un bene maggiore, con una accettazione e tenerezza di fondo, perché la forza del nostro messaggio e del nostro desiderio di cambiare qualcosa e farci ascoltare da qualcuno non dipende, come a volte crediamo, da quanta tensione, durezza, tono di voce alto, parole amare e dure mettiamo, ma….da quanto amore decidiamo di mettere unito a ciò che è importante che diciamo, da se mettiamo amore, tenerezza come desiderio di aiutare l’altro, anche quando dobbiamo fargli notare un male che egli ha fatto o sta facendo, non per umiliarlo, ma per aiutarlo a crescere e cambiare, e per aiutarlo a volerci bene con più empatia a sua volta. Come vorremmo fosse sempre fatto verso di noi.
A volte siamo talmente dispiaciuti, impauriti, preoccupati, arrabbiati con qualcuno, che ci sembra solo troppo difficile pensare all’altro, guardarlo e trattarlo con empatia e tenerezza, una tenerezza che costruisce e non ignora, non fugge e non aggredisce, e non si impone, neanche quando ciò che abbiamo da dire e consigliare è un bene per l’altro.
Eppure, se aiutiamo noi stessi a ritrovare pace interiore, anche provando a guardare l’altro come a una persona che sicuramente sta combattendo in sé sue “battaglie” personali, sue ferite e paure che noi non conosciamo e non dobbiamo per forza conoscere, possiamo iniziare a coltivare quella tenerezza, la tenerezza di una madre che quando vede suo figlio arrabbiato, o chiuso, continua ad amarlo, ad accettarlo, ad andare “oltre” ciò che lui esprime in quel momento, anche quando dà il peggio di sé.
È necessario che coltiviamo questo tipo di tenerezza anche verso noi stessi, soprattutto verso quelle parti di noi che ancora non accettiamo, quando per esempio non riusciamo o non vogliamo amare, o quando siamo delusi da noi stessi per quanto sbagliamo a volte o per quanto duramente guardiamo i nostri limiti e difetti.
Liberiamo la nostra tenerezza, chiediamo a Dio ogni giorno di poter attivare questo dono grande che Lui ci ha fatto, gratuitamente, una tenerezza che in noi ha sfumature e qualità uniche, perché siamo unici, e questo vale per ogni persona. Partiamo dall’umiltà, dal guardare con umiltà noi stessi e gli altri, senza pretendere perfezione, decidiamo di amare noi stessi e gli altri nella verità, perché “La verità vi farà liberi” (Giovanni 8, v.32)
