Le mie parole…e quelle degli altri

Se io uso le mie parole soprattutto per lamentarmi, non è per attirare attenzione e giustificarmi, ma penso sia per far capire in modo più preciso ed evidente quanto sono dispiaciuta e pessimista su qualcosa o qualcuno. E per sottolineare che “devono aiutarmi” e rallegrarmi, farmi cambiare umore.

 Se io evito di dire a una persona parole di incoraggiamento sincero, se preferisco non valorizzare ciò che di bello e buono vedo in lei e nelle sue scelte è perché secondo me rischierei di far inorgoglire l’altro, e potrei sembrare più dolce e fragile, quindi  secondo me più attaccabile, di ciò che voglio sembrare.

Se io  uso parole forti, pungenti, anche con chi soffre o sembra non ascoltarmi, mi convinco che lo faccio solo per “scrollare” l’altro, per farlo smuovere, per attirare la sua attenzione.

Se quando mi arrabbio uso parole molto dure, più dure  di ciò che in realtà sento e penso, se urlo e se riempio i miei messaggi di sarcasmo, di parole amare, di “ormai”, e di grandi etichettature e giudizi sull’altro (“Tu sei cosi”), è perché secondo me è solo alzando il “volume” del mio dolore e  della mia rabbia con parole provocatorie forti che l’altro mi ascolterà, capirà il mio dolore e frustrazione e rabbia, e finalmente farà qualcosa per cambiare o darmi retta. Convinta che il mio tono arrabbiato e teso faciliti il far capire all’altro quanto in realtà sto male e triste e delusa.

Se io scherzo dicendo battute sferzanti e che possono ferire l’altro o sminuire la sua immagine davanti a se stesso e agli altri, non è perché lo penso veramente (siamo sicuri?), ma perché “stavo solo scherzando”, e mi convinco che l’altro è permaloso e non sa scherzare, invece di chiedermi se forse l’altro ha colto nel mio tono e nelle mie pesanti e umilianti parole e battute che sembrano solo scherzose un sottofondo di rabbia o di poca stima nei suoi confronti un modo di “attaccarlo” e litigarci senza farlo direttamente ma procurandogli eventuale dispiacere in un  modo che a me sembra più  “efficace”comodo e nascosto, e di cui non mi rendo del tutto conto a volte neanche io, presa dalle parole scherzose da trovare velocemente per non far vedere come mi sento davvero nei confronti dell’altro.

Se io dico una bugia all’altro mi convinco che lo faccio per evitargli sofferenze, perché non capirebbe e litigheremmo, perché forse poi non mi stimerebbe più o si allontanerebbe. E mi giustifico dicendomi a volte che in fondo sto solo dicendo una piccola bugia.

 

Se invece è l’altro

che si lamenta ed esprime spesso la sua sofferenza o pessimismo, allora uso il criterio del giudizio che è una persona pesante, lamentosa, che approfitta degli altri per lamentarsi, egoista, ecc ecc.  Se l’altro non mi fa complimenti, non mi dice parole di incoraggiamento, allora a volte credo e penso che sia perché è indifferente, egoista, perché non mi vuole bene.

E se è l’altro che arrabbiato mi dice parole pungenti, mi chiudo e non mi sento aiutato ma solo trattato male, e lo stesso se mentre è arrabbiato mi rivolge parole forti, mi parla e rivanga fatti passati spiacevoli dove ho sbagliato, se urla mentre mi parla, se ha toni e parole molto dure, io penso che sia cattivo, che non mi capisce, che vuole solo farmi del male, e smetto di ascoltarlo e di parlarci o alzo il tono di voce e parole anche io.  Certo non punto facilmente in quei momenti la mia attenzione sulle sue sofferenze e frustrazioni, ma mi è più facile crederlo cattivo.

Se è l’altro a fare battute su di me colgo subito che non sta scherzando “con” me ma su di me, e penso che vuole ferirmi e fare una ripicca con le sue parole che sottolineano miei difetti o sbagli o debolezze.

 Se è l’altro che mi dice una bugia allora lo etichetto come bugiardo, come ipocrita, come uno di cui non fidarsi mai ….

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